Cassazione penale. Responsabilità Medica: morte del feto in travaglio è omicidio colposo

La Suprema Corte, con la Sentenza del 20 giugno 2019 , n. 27539, pone l’accento sul momento del decesso del feto al fine di individuare la corretta fattispecie di reato.

FATTO

Il Tribunale di Salerno condannava un’ostetrica per il reato di omicidio colposo, exart. 589 c.p., per aver cagionato la morte del feto partorito da una sua assistita.

In particolare, le si contestava di aver colposamente omesso il monitoraggio del battito fetale e tale omissione non consentiva al ginecologo di accorgersi della sofferenza fetale in corso e quindi di porre in essere le opportune misure per evitarne la morte in utero.

Dall’esame autoptico e istopatologico la causa del decesso veniva individuata nell’asfissia perinatale ossia dovuta alla carenza di ossigeno nel sangue.

In primo grado venivano riconosciuti gravi profili di colpa professionale per negligenza e imperizia nella condotta dell’ostetrica, confermati, altresì, durante il giudizio di appello così come le statuizioni in ordine alla responsabilità per omicidio colposo ravvisandosi il nesso causale tra l’errato o non adeguato monitoraggio del benessere fetale e il decesso per fenomeno asfittico.

Veniva invocato dall’imputata il c.d. principio dell’affidamento; principio adoperato al fine di determinare il livello di responsabilità di ciascun componente dell’équipe medica entro il concetto di responsabilità penale personale.

La Corte d’Appello riteneva di non poter dispensare l’ostetrica dalla gestione della paziente: anche se in sala parto erano presenti altri sanitari, la stessa non poteva confidare che altri,succedendo nella posizione di garanzia eliminassero o ponessero rimedio all’omissione dalla stessa determinata, anche in applicazione del Decreto Ministeriale n.740 del 1994 di definizione e ampliamento dei compiti riconosciuti alla categoria professionale.

Ricorrendo in Cassazione, il difensore evidenziava la circostanza in base alla quale all’estrazione del feto dall’utero, lo stesso fosse già privo di vita pertanto, unitamente ad altri motivi, si doleva dell’errata qualificazione giuridica dei fatti.

Il difensore riteneva maggiormente aderente al caso, la fattispecie prevista dall’art.17 della Legge 22 maggio 1978, n. 194, ossia l’aborto colposo, in luogo dell’omicidio colposo.

In subordine veniva sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 589 c.p., per violazione degli artt. 25, comma 2, 117 Cost. e art. 7 CEDU. La difesa dell’imputata osservava come l’art. 589 c.p. avrebbe violato i principi di tassatività, frammentarietà e sufficiente determinatezza della fattispecie penale in quanto privo di un’accezione univoca del concetto dipersona e dunque comprensivo o meno del feto.

A sostegno veniva richiamato l’art. 578 c.p. – infanticidio in condizione di abbandono materiale o morale –il quale distingue, e non equipara, l’ipotesi di morte di un neonato immediatamente dopo il parto,da quella di morte di un feto durante il partoe, pertanto,la portata punitiva degli artt. 575 c.p. (Chiunque cagiona la morte di un uomoè punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno) e 589 c.p. (Chiunque cagiona, per colpa, la morte di un uomo e’ punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. […]) non possono estendersi anche ai casi di morte del nascituro durante la fase finale della gestazione bensì, più corretto sarebbe invocare la suddetta Legge n. 194/’78.

 

LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE PENALE

 

Gli Ermellini, con la sentenza in epigrafe, hanno dichiarato infondato il ricorso e, addivengono a tale conclusione indagando sul momento di compimento dell’azione criminosa, così affermando: “in tema di delitti contro la persona, l’elemento distintivo della fattispecie di soppressione del prodotto del concepimento è costituito anche dal momento in cui avviene l’azione criminosa”.

Preliminarmente viene posto l’accento sull’impossibilità di porre sullo stesso piano applicativo gli artt. 589 e 578 del codice penale; quest’ultimo, infatti, contempla una situazione particolare ossia l’abbandono materiale e morale connesse al parto, da intendersi come elemento specializzante rispetto all’omicidio.

Pertanto, al di fuori delle ipotesi di reato previste dall’art. 578 c.p., qualora la condotta criminosa sia posta in essere dopo il distacco del feto dall’utero materno, questa configura il reato di omicidio, a nulla rilevando le modalità con le quali è avvenuto il distacco, se indotto o naturale.

A seguire viene compiuta un’analisi tra il reato di omicidio e quello di infanticidio: posto che entrambi tutelano la vita dell’uomo nella sua interezza, la locuzione durante il parto di cui all’art. 578 c.p. è inclusiva del feto nascente nel concetto di uomo inteso quale soggetto passivo del reato, in considerazione del fatto che, prima di quel momento, il feto viene tutelato nel reato di procurato aborto exart. 17.

Si legge in sentenza “in caso di parto indotto prematuramente e fuori dalle modalità consentite dalla legge, che si concluda con la morte del prodotto del concepimento – sia esso feto o neonato – nella conclamata assenza di ogni elemento specializzante, e fermo il principio irrinunciabile secondo cui la tutela della vita non può soffrire lacune, l’illecito commesso sarà omicidio o procurato aborto a seconda che il nascente abbia goduto di vita autonoma o meno”.

Riportando la consolidata giurisprudenza in tema di delitti contro la persona, il discrimen tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo si individua nell’inizio del travaglio, il quale coincide con il raggiungimento da parte del feto di autonomia (in quanto segna il passaggio dalla vita intrauterina a quella extrauterina); proprio il distacco consente di determinare la fattispecie di reato in omicidio colposo.

Nel caso in disamina, poiché il decesso è avvenuto a travaglio iniziato, anche se il feto era ancora in utero, aveva raggiunto la propria autonomia nel momento di rottura del sacco contenente il liquido amniotico consentendo di assimilare il feto all’uomo e quindi considerare il decesso in termini di omicidio così come correttamente configurato dal Tribunale di merito e dalla Corte d’Appello.

Con riferimento alla sollevata questione di illegittimità costituzionale, la Corte osserva l’assenza di profili di incostituzionalità e, anzi, siffatto percorso logico – giuridico è in linea con il “quadro normativo e giuridico italiano e internazionale di totale ampliamento della tutela della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela che dal nascituro al concepito si è poi estesa fino all’embrione” (Cfr. Corte Cost. n. 229 del 2015 e Corte Edu – Parrillo c. Italia del 27 agosto 2015).

La stessa Corte la dichiara infondata e afferma: “alla luce di tale ricostruzione del rapporto tra le fattispecie criminose previste dagli artt. 575 e 578 c.p. l’inclusione dell’uccisione del feto nell’ambito dell’omicidio, infatti, non comporta una non consentita analogia in malampartem, bensì una mera interpretazione estensiva, legittima anche in relazione alle norme penali incriminatrici”.

In conclusione, affermano gli Ermellini, non potrebbe opinarsi diversamente in quanto si accorderebbe tutela al feto avverso fatti ad esso lesivi solo se la morte fosse cagionata in condizione di abbandono morale e materiale connesse al parto e lì dove tale elemento specializzante venisse a mancare, ne discenderebbe un inaccettabile vuoto di tutela non trovando applicazione né il procurato aborto né l’omicidio.

Anche con riferimento al richiamato principio dell’affidamento, la Suprema Corte si allinea alle conclusioni rassegnate nel giudizio di merito negando all’ostetrica la possibilità di farlo valere e, all’uopo, richiama il compendio normativo previsto per l’esercizio della professione di ostetrica con il quale si indicano precipuamente i compiti assegnati tra cui “valutare eventuali anomalie dei tracciati e darne comunicazione ai sanitari”. Viene ricordata pregressa giurisprudenza in tema di responsabilità medica in caso di parto, ferma nel condannare per omicidio colposo tanto il ginecologo quanto le ostetriche nel caso in cui si rendevano omissive nel segnalare peggioramenti del tracciato. (Cfr. Cass. Pen., Sez. IV, del 5 ottobre 2018, n. 47801).

La peculiarità delle mansioni previste in capo all’ostetrica rendono le stesse indelegabili a chiunque altro presente in sala parto conclamando la violazione dei propri doveri istituzionali e la responsabilità della stessa.