LA RESPONSABILITA’ MEDICA NELLE INFEZIONI OSPEDALIERE

 

  1. Definizione di Infezione Ospedaliera: fonti scientifiche e giuridiche 2. Fenomeno dell’Antibiotico-Resistenza: cause, effetti e numeri 3. Responsabilità medica e prova liberatoria: Giurisprudenza in materia di I.O.  4. Conclusioni

 

  1. Definizione di Infezione Ospedaliera: fonti scientifiche e giuridiche

Studi scientifici effettuati in tutto il mondo documentano come le infezioni ospedaliere o nosocomiali costituiscano oggi una delle maggiori cause di morbilità e di mortalità; la frequenza di tali infezioni rappresenta un indicatore importante della qualità del servizio sanitario erogato in termini di efficienza e costi pubblici aggiuntivi, che spesso risultano ingenti ed evitabili.

I fattori che possono contribuire ad incidere sulla frequenza delle infezioni nosocomiali sono molteplici: il fatto che i pazienti ospedalizzati siano spesso immunodepressi e sottoposti ad accertamenti costanti e trattamenti invasivi; le procedure di cura e l’ambiente ospedaliero; l’utilizzo estensivo degli antibiotici che facilita l’insorgere di resistenze; il costante cambiamento nell’attuale pratica medica che comporta nuovi rischi e veicoli per lo sviluppo delle infezioni.

Il primo profilo problematico che emerge è quello inerente la loro definizione, che assume specifica rilevanza sul piano medico e giuridico: in generale le infezioni ospedaliere (da ora I.O.) sono quelle acquisite durante la degenza nella struttura ospedaliera e che non erano presenti nel paziente, o in fase di incubazione, al momento dell’ingresso o del ricovero, che deve essere avvenuto per causa diversa dall’infezione, insorte durante la degenza o successivamente alle dimissioni.

In modo più appropriato rispetto all’evoluzione del sistema complessivo di assistenza sanitaria, oggi si parla, nel linguaggio scientifico e anche giuridico, di Infezioni Correlate all’Assistenza (da ora I.C.A.), una terminologia che tiene conto della necessità di ampliare il concetto di infezione ospedaliera a quello di infezioni correlate all’assistenza sanitaria e sociosanitaria. Negli ultimi anni, infatti, l’assistenza sanitaria ha subito profondi cambiamenti, mentre prima gli ospedali erano il luogo in cui si svolgeva la maggior parte degli interventi assistenziali in seguito, a partire dagli anni Novanta, sono aumentati sia i pazienti ricoverati in ospedale in gravi condizioni, quindi a maggiore rischio di infezioni ospedaliere, sia i luoghi di cura extra-ospedalieri come le residenze sanitarie assistite per anziani, l’assistenza domiciliare e ambulatoriale.

L’utilizzo del termine I.O. e la sua inclusione nella “macroarea” delle ICA, deve tenere conto del caso concreto e della genesi dell’infezione, pur potendo ricondursi ad unico fenomeno generale, che sul piano definitorio ha risentito dell’evoluzione scientifica e giurisprudenziale.

Per definire, individuare e classificare le I.O. si è fatto riferimento alla letteratura scientifica internazionale (in particolare quella del Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta) e nazionale sul tema, alle circolari del Ministero della Salute (52/85 e 8/88), alla normativa (da ultimo la Legge Gelli-Bianco 24/2017), alla giurisprudenza di legittimità e di merito in materia che, a tal proposito, richiama la più autorevole e riconosciuta letteratura scientifica sul punto.

Possono definirsi I.C.A. quelle i cui segni emergono:

  • Almeno 48 ore dopo il ricovero in ospedale;
  • Fino a 72 ore dopo la dimissione;
  • Fino a 30 gironi dopo un intervento chirurgico;
  • Fino a 1 anno in caso di impianto permanente;
  • In ambienti sanitari (ad esempio cliniche di lungo degenza o RSA) dove il paziente viene ricoverato per motivi diversi dalla causa infettiva.

Secondo i C.D.C. di Atlanta (acronimo di Centers for Disease Control and Prevention, importante organismo di controllo sulla sanità pubblica degli Stati Uniti d’America, un’agenzia federale degli Stati Uniti, facente parte del Dipartimento della salute e dei servizi umani), sono da considerare infezioni correlate all’assistenza (I.C.A.) quelle i cui sintomi e segni sono insorti a partire dal terzo giorno di ricovero in poi, dovendosi reputare “esterne” quelle presenti fin dall’ingresso in ospedale, cioè insorte da due giorni prima del ricovero e fino ai primi due giorni di ricovero.

L’European Centre for Disease Prevention and Control ha definito le infezioni del sito chirurgico (SSI-Surgical Site Infection) come infezioni post-operatorie che si verificano 48 ore dopo l’intervento ed entro 30 giorni, o entro un anno in caso di impianto permanente di dispositivo.

Per questi ed altri motivi sono da considerarsi infezioni correlate all’assistenza, e dunque suscettibili di richiesta di risarcimento danni per “malasanità”, gli episodi con insorgenza dei primi sintomi e primi segni di infezione successivi al terzo giorno di ricovero ospedaliero.

Tale definizione è stabilita principalmente a fini epidemiologici ma assume anche rilevanti conseguenze sia in ambito scientifico, ai fini della gestione clinica dell’infezione, sia in ambito giuridico ai fini dell’attribuzione della responsabilità medica civile che, se non risulta agevole rispetto al singolo operatore, risulta molto più percorribile nei confronti della struttura sanitaria.

Pertanto, dall’analisi della letteratura scientifica si evince che un’infezione, per poter essere considerata associata all’assistenza sanitaria, deve insorgere dopo almeno 48 ore di ricovero e non deve essere presente (neanche in fase di incubazione) al momento dell’ingresso in ospedale.

Questo però non vuol dire che le ICA (Infezione correlata all’assistenza, definita come “una condizione sistemica o localizzata dovuta ad una reazione avversa alla presenza di un agente/i patogeno/i o della sua tossina/e. Non devono esserci evidenze che l’infezione fosse presente o in incubazione al momento dell’ammissione”) insorgono esclusivamente durante la degenza, infatti, potrebbe accadere che l’insorgenza avvenga a distanza di molti giorni dal ricovero, magari quando il paziente è tornato a casa, questo è il caso delle infezioni della ferita chirurgica (cd. infezioni del sito chirurgico).

La c.d. Legge  Gelli-Bianco, n. 24 del 2017, ha attuato una significativa riforma in materia di responsabilità medico-legale anche  nei casi di infezioni ospedaliere ponendo l’accento, in particolare, sulla difficoltà di individuare gli operatori sanitari ai quali attribuire la responsabilità per l’infezione contratta durante la degenza presso una struttura sanitaria.

Al fine della risoluzione di tale problematica, la succitata legge ha riconosciuto l’esistenza, già ampiamente riconosciuta dalla giurisprudenza, di una responsabilità di tipo contrattuale in capo alla struttura, alla quale potrà esser rivolta la richiesta risarcitoria, e, conseguentemente, la responsabilità del professionista è divenuta residuale nonchè di natura extracontrattuale, evidenziando, inoltre, l’importante ruolo del “rischio clinico”, da arginare mediante l’adozione di specifiche procedure volte a evitare l’insorgenza delle I.O. che dovrebbero così divenire, almeno in linea teorica, maggiormente “prevedibili” e “prevenibili”.

Se è vero che di solito sono considerate “nosocomiali” le infezioni che si manifestano più di 48 ore dopo l’ingresso o 72 ore dopo le dimissioni va precisato che molto dipende anche dal caso concreto e dal relativo “tempo di incubazione” della singola infezione che assume quindi rilievo come parametro per individuare/definire le I.O. (o più in generale le ICA).

A tal proposito la letteratura scientifica, sia italiana che internazionale, le circolari ministeriali sul punto, la dottrina giuridica e la giurisprudenza in materia hanno individuato dei limiti e dei parametri temporali, più o meno precisi, per definire le infezioni ospedaliere o nosocomiali: “48 ore dal ricovero e fino a 3 giorni dopo le dimissioni.”

In realtà il secondo parametro, quello “in uscita” (tempo dopo le dimissioni del paziente), finisce per risultare necessariamente molto più aperto e ampio rispetto al parametro utilizzato “in entrata” (tempo dopo il ricovero), in quanto collegato al “tempo di incubazione” della specifica infezione, che può variare in base al caso concreto,  e che assume rilievo ai fini giuridici.

Le infezioni acquisite in ospedale sono genericamente conosciute come “infezioni contratte a causa del ricovero” in una struttura sanitaria e la Circolare del Ministero della Sanità n. 52/1985 chiarisce che trattasi di “un’infezione di pazienti ospedalizzati, non presente né in incubazione al momento dell’ingresso in ospedale, comprese le infezioni successive alla dimissione, ma riferibili per tempo di incubazione al ricovero.”

Nel definire le I.O. (in senso più ampio le ICA), si fa riferimento, infatti, a quelle non manifeste clinicamente né in incubazione al momento dell’ingresso e che si rendono evidenti dopo 48 ore o più dal ricovero, nonché quelle successive alla dimissione, ma causalmente riferibili, per tempo di incubazione, agente eziologico e modalità di trasmissione al ricovero medesimo, tale ultima tipologia rappresenta una quota sostanziosa delle I.O., che soprattutto concerne l’infezione di ferite chirurgiche riscontrabile in una percentuale oscillante dal 19 al 66%.

Caratteristica prioritaria risulta, quindi, che l’infezione debba essere cronologicamente riconducibile ad un ricovero anche se, da un punto di vista causale, assume maggiore rilevanza la tipologia del patogeno interessato, comprendendo il termine I.O. varie entità nosologiche.

Il fatto che l’infezione si sia manifestata dopo la dimissione, non esclude la sua origine ospedaliera come risulta dalla definizione di infezione riportata dallo stesso Istituto Superiore di Sanità: “Si definiscono così infatti le infezioni sorte durante il ricovero in ospedale, o dopo le dimissioni del paziente, che al momento dell’ingresso non erano manifeste clinicamente né erano in incubazione…”. (Tribunale di Siena, sentenza n.1199/2017)

Il termine infezione Ospedaliera o nosocomiale comprende varie entità nosocologiche e segnatamente infezioni insorte nel corso di un ricovero ospedaliero, non manifeste clinicamente né in incubazione al momento dell’ingresso e che si rendono evidenti 48 ore o più dal ricovero e le infezioni successive alla dimissione, ma casualmente riferibili, per tempo di incubazione, agente eziologico e modalità di trasmissione, al ricovero medesimo. (Corte d’Appello di Catanzaro, sentenza n.1446/2018)

Per infezione acquisita in Ospedale si definisce un’infezione contratta durante il ricovero in ospedale, che non era manifestata clinicamente né in incubazione al momento dell’ammissione, ma che compare durante o dopo il ricovero e da questa è determinata (Circolare Ministero Sanità n.52/1985). Più recentemente, per I.O. si intende un campo più vasto all’interno delle Infezioni Correlate all’Assistenza (I.C.A.) che include tutte le infezioni riconducibili a tutti i momenti assistenziali della pratica clinica, anche non strettamente ospedalieri, infezioni che per essere definite tali, devono essere insorte in un paziente ricoverato nell’ambito della rete di sorveglianza che al momento dell’ammissione al ricovero non presentava segni di una infezione o di una sua incubazione o l’agente eziologico e le modalità di trasmissione, nonché il periodo di incubazione, devono essere compatibili con l’intervallo di tempo intercorso tra l’esposizione all’agente responsabile e la comparsa della malattia. (Tribunale di Palermo, sentenza n.5124/2017)

  1. Fenomeno dell’Antibiotico-Resistenza: cause, effetti e numeri

Il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, strettamente connesso al tema delle infezioni ospedaliere, è determinato da molteplici fattori, in particolare l’uso continuo e inappropriato di antibiotici, ha favorito la diffusione di ceppi resistenti, spesso correlate all’assistenza sanitaria.

L’avvento e l’impiego degli antibiotici ha avuto una portata rivoluzionaria per la medicina moderna nelle modalità di approccio al trattamento e alla prevenzione delle infezioni, tuttavia, recentemente, il fenomeno dell’antibiotico-resistenza (AMR, Antimicrobial resistance) è aumentato purtroppo in maniera considerevole, impattando sulla sanità pubblica in maniera devastante, variando in base allo specifico agente patogeno, al singolo antibiotico e/o all’area geografica.

L’OMS, in occasione dell’Assemblea Mondiale della Sanità del 2015, ha adottato il Piano d’Azione Globale (GAP) per contrastare la resistenza antimicrobica fissando cinque obiettivi strategici finalizzati a:

  • migliorare i livelli di consapevolezza attraverso informazione ed educazione efficaci rivolti al personale sanitario e alla popolazione generale;
  • rafforzare le attività di sorveglianza;
  • migliorare la prevenzione e il controllo delle infezioni;
  • ottimizzare l’uso degli antimicrobici nel campo della salute umana e animale;
  • sostenere ricerca e innovazione.

A tal proposito l’OMS, a seguito dell’elaborazione dei dati disponibili, ha ipotizzato uno scenario drammatico: entro il 2050 la prima causa di morte saranno le infezioni da germi resistenti con un numero di vite perdute, 10 milioni, superiori alle morti che il cancro causa attualmente. In Europa si prevedono 392.000 morti e 120mila in Italia, che già oggi con 10mila decessi l’anno è la nazione più colpita assieme alla Grecia.

I numeri dell’Antibiotico resistenza:

  • sono 700mila i decessi nel mondo causati ogni anno da batteri resistenti agli antibiotici, 33mila in Europa e 10mila in Italia, che registra la più alta mortalità per infezioni antibiotico resistenti, concausa di altri 49mila decessi;
  • l’Oms prevede che entro il 2050 la prima causa di morte saranno le infezioni da antibiotico resistenza con 10 milioni di vite perdute nel mondo, superiori alle attuali morti per cancro;
  • secondo i dati del Centro Europeo per il Controllo delle Malattie (Ecdc) e dell’European Antimicrobial Resistance Surveillance Network (Ears-Nest), le persone che potrebbero perdere la vita entro il 2050 in Europa sono 392mila e 120mila in Italia;
  • solo il 50% delle infezioni sarebbero prevenibili, per il restante, ammessa la capacità preventiva, servono nuovi farmaci;
  • grazie a nuovi antibiotici si potrebbe ridurre di un terzo la mortalità salvando già oggi, solo in Italia, 3mila vite l’anno. Ma sono solo 12 al mondo le nuove molecole in fase avanzata di sviluppo clinico.

I risultati del primo rapporto nazionale dedicato all’AMR, pubblicato nel novembre 2019, hanno evidenziato come, nel corso del 2018, le proporzioni di resistenza delle otto specie batteriche responsabili di infezioni gravi in ospedale (Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Enterococcus faecalis, Enterococcus faecium, Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter spp.) alle principali classi di antibiotici continuano a mantenersi più alte in Italia rispetto alla media europea, ma complessivamente si è osservato un andamento in calo rispetto agli anni precedenti. In particolare, la resistenza agli antibiotici carbapenemi rimane comunque a livelli molto elevati in isolati di Acinetobacter spp. (82%), Klebsiella pneumoniae (30%) e Pseudomonas aeruginosa (16%), mentre tra gli isolati di Escherichia coli si riscontrano livelli elevati di resistenza alle cefalosporine di terza generazione (29%) e ai fluorochinoloni (42%). Oltre un terzo degli isolati di Staphylococcus aureus (34%) erano resistenti alla meticillina (MRSA), mentre incrementi significativi si sono riscontrati nella percentuale di isolati di Enterococcus faecium resistenti alla vancomicina (19%). In modo preoccupante, alcuni tipi di batteri mostrano profili di resistenza multipla, come per esempio nel 76% degli isolati di Acinetobacter spp., il 33% degli isolati di K. pneumoniae, il 15% degli isolati di P. aeruginosa e l’11% degli isolati di E. coli.

Quando gli antibiotici sono utilizzati in maniera non corretta (rispetto alle dosi, al numero di somministrazioni, ai tempi necessari per la guarigione), i batteri possono adattarsi agli stessi e sviluppare una resistenza agli antibiotici (c.d. antibiotico-resistenza), spesso deve essere studiata la combinazione di più antibiotici o deve essere scelto l’antibiotico più adatto alla terapia di quel singolo caso, spetta al medico decidere la terapia più idonea, in base a dettagliate informazioni raccolte. (Corte d’Appello di Catanzaro, sentenza n.100/2019)

L’antibiotico resistenza, inoltre, è una caratteristica spesso frequente di questi batteri, specie nelle cosiddette infezioni nosocomiali, costituendo un problema da non sottovalutare; pertanto la corretta scelta terapeutica deve basarsi necessariamente sull’antibiogramma. (Tribunale di Latina, sentenza n. 1757/2020)

Il Ministero della Sanità, al fine di uniformare l’Italia alla maggior parte dei paesi europei, con circolare n. 52 del 20/12/1985 e successivamente con circolare n. 8 del 30/01/1988, aventi per oggetto la lotta alle Infezioni Ospedaliere, ha recepito in pieno le raccomandazioni europee ufficializzando il problema ed indicando la composizione di massima del Comitato per le I.O. (CIO), nonchè alcuni provvedimenti organizzativi da attuare in ciascun presidio ospedaliero. Ogni anno, in Italia, si verificano dalle 450.000 alle 750.000 infezioni causate da germi responsabili delle più diffuse e più gravi complicanze durante la degenza ospedaliera, queste patologie hanno una maggiore incidenza nei reparti di Terapia intensiva (21,4%), nei reparti di Medicina (17,3%) e nei reparti di Chirurgia (10,8%).

Secondo l’Ecdc, circa 1 paziente su 15 ogni giorno in Italia contrae un’infezione durante un ricovero in ospedale ma quello che emerge in maniera altrettanto evidente dallo studio del Centro Europeo per le Malattie infettive (Ecdc) è che oggi in Italia la probabilità di contrarre infezioni durante un ricovero ospedaliero è del 6%, con 530 mila casi ogni anno: dati che pongono l’Italia all’ultimo posto tra tutti i Paesi in Europa. In Italia si stimano circa 7.800 casi di decessi all’anno per infezioni acquisite nei nosocomi, pari al doppio delle morti legate agli incidenti stradali. Le autorità sanitarie hanno adottato alcuni provvedimenti al fine di fronteggiare il problema: le succitate circolari n. 52/1985 e n. 8/1988, hanno previsto l’istituzione del Comitato di controllo, organismo intra ospedaliero deputato alla stesura, alla conduzione ed al controllo dei progetti finalizzati alla riduzione dell’incidenza delle infezioni ospedaliere, ed altre disposizioni, sia di carattere generale per la creazione di un sistema di Clinical Risk Management, sia più specifiche a livello locale come, ad esempio, i piani regionale per la prevenzione delle malattie infettive.

I dati della mortalità causata dalle infezioni ospedaliere sono molto preoccupanti: si è passati dai 18.668 decessi del 2003 a 49.301 del 2016, l’Italia conta il 30% di tutte le morti per sepsi nei 28 Paesi Ue (Rapporto Osservasalute 2018). Dimostrazione che molto di più deve essere fatto dalle Autorità sanitarie di questo Paese anche quali Linee Guida che ogni Azienda Ospedaliera debba rispettare.

Secondo la definizione del National Nosocomial Infection Surveillance System (NNIS), per infezione del sito chirurgico (SSI, surgical site infection) si intende un’infezione che si verifica entro 30 giorni dall’intervento chirurgico o entro 1 anno se in seguito alla procedura chirurgica viene lasciato in situ un impianto, ovvero un corpo estraneo impiantabile, di origine non umana.

La locuzione “infezione del sito chirurgico” (SSI, surgical site infection) è stata introdotta nel vocabolario medico nel 1992 per sostituire quella precedente di “infezione della ferita chirurgica.

Tali infezioni sono estremamente eterogenee, rendendo dunque difficile una determinazione precisa della loro epidemiologia. La loro incidenza, infatti, varia in maniera considerevole in funzione non soltanto del tipo di intervento, ma anche dell’ospedale, del paziente e del chirurgo, nonostante ciò, grazie al sistema di sorveglianza epidemiologica in atto negli Stati Uniti da parte dei Centers for Diseases Control National Nosocomial Infection Surveillance (CDC NNIS) sono disponibili, al riguardo, molte informazioni. Le SSI occupano, nell’ambito delle infezioni nosocomiali, il terzo posto per ordine di frequenza, costituendo il 14,16% di tutte le infezioni osservate nei pazienti ospedalizzati ed il 38% di quelle che si osservano nei pazienti chirurgici. Negli Stati Uniti, le SSI si verificano nel 2-5% dei pazienti sottoposti ad interventi chirurgici e quindi, valutando che ammonta all’incirca a 15 milioni il numero di interventi/anno, si stima che le SSI risultano pari a 300.000-500.000 casi per anno. In Europa, alcuni dati epidemiologici confermano che l’incidenza delle SSI può raggiungere valori anche del 20%, ma che tale incidenza dipende molto dal tipo di chirurgia, dai criteri di sorveglianza utilizzati e dalla qualità dei dati raccolti. I dati europei sottolineano l’evidenza che l’aumentato numero di procedure chirurgiche mini-invasive ha di fatto ridotto il numero di SSI.

  1. Responsabilità medica e prova liberatoria: Giurisprudenza in materia di I.O.

Giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione è orientata, ormai da tempo, nel senso di richiedere al paziente la sola dimostrazione di avere avuto un contatto con una determinata struttura sanitaria per un trattamento astrattamente idoneo a determinare un’infezione nosocomiale, o più in generale un’infezione correlata all’assistenza, ed i suoi postumi e la prova del danno in seguito alla permanenza in quella determinata struttura.

Alla struttura sanitaria spetta, invece, dimostrare la diligenza del suo operato e dei propri operatori, la speciale difficoltà dell’intervento, l’imprevedibilità di un determinato evento e che questo si sia verificato per cause di forza maggiore, indipendenti dal suo comportamento ovvero la mancanza di nesso di causa tra evento ed operato dell’Ospedale/struttura sanitaria.

Da segnalare la recente ordinanza della Cassazione, n. 17696 del 25 agosto 2020, in tema di responsabilità della struttura ospedaliera, in relazione al decesso di una paziente avente come causa finale uno shock settico, tuttavia, l’evento non avrebbe avuto inizio se non ci fosse stata un’infezione da stafilococco aureo (frequente origine nosocomiale e particolare resistenza di questo batterio agli antibiotici) inclusa espressamente dalla stessa CTU “tra le concause della morte” della paziente: in mancanza dell’infezione originaria, la sopravvivenza della paziente agli esiti della caduta accidentale sarebbe stata “più probabile che non”.

Il fenomeno della antibiotico-resistenza comporta la necessità di una particolare attenzione, da parte della struttura sanitaria, alla sterilità di tutto l’ambiente operatorio, in quanto, “l’insorgenza di un’infezione del genere non può considerarsi un fatto né eccezionale né difficilmente prevedibile. E l’onere della prova di avere approntato in concreto tutto quanto necessario per la perfetta igiene della sala operatoria è, ovviamente, a carico della struttura.” La struttura sanitaria deve garantire la sterilità non solo dei ferri chirurgici, ma dell’intera sala operatoria e risponde anche dell’opera dei terzi della cui collaborazione si avvale, dato che tali compiti non spettano direttamente al chirurgo operatore.  Pertanto, la Cassazione rileva che, a seguito del ricovero della paziente, gravavano sulla struttura sanitaria una serie di obbligazioni di natura contrattuale e tra queste, “pacificamente… anche l’obbligazione di garantire l’assoluta sterilità non soltanto dell’attrezzatura chirurgica ma anche dell’intero ambiente operatorio nel quale l’intervento ha luogo; tanto che questa Corte ha affermato, proprio in un caso di infezione batterica contratta in ambiente operatorio, che il debitore (cioè la struttura sanitaria) risponde anche dell’opera dei terzi della cui collaborazione si avvale, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., dato che la sterilizzazione della sala operatoria e dei ferri chirurgici è compito che non spetta direttamente al chirurgo operatore”. La responsabilità della struttura sanitaria per il fatto degli ausiliari di cui si avvale si estende dunque alla condotta di tutti gli operatori chiamati a dare il proprio contributo all’operatività della struttura stessa. Se non risulta prospettata la possibilità che l’infezione possa avere un’origine diversa da quella nosocomiale, secondo la Cassazione, infatti, deve darsi per accertata, anche se in via presuntiva, la dimostrazione da parte dei danneggiati che il contagio sia avvenuto in ospedale. Ciò che rileva, a tal proposito, è  che l’Azienda ospedaliera dimostri la regolarità dell’operato dei suoi ausiliari, anche in relazione alle operazioni di sterilizzazione dell’ambiente operatorio. Alla luce della giurisprudenza suindicata, infatti, una volta dimostrata, da parte del danneggiato, la sussistenza del nesso di causalità tra l’insorgere (in questo caso) della malattia ed il ricovero, era onere della struttura sanitaria provare l’inesistenza di quel nesso (ad esempio, dimostrando l’assoluta correttezza dell’attività di sterilizzazione) ovvero l’esistenza di un fattore esterno che rendeva impossibile quell’adempimento ai sensi dell’art. 1218 del codice civile.

In tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno-evento non è la violazione delle “leges artis” nella cura del paziente, ma il danno del diritto alla salute di quest’ultimo, che è l’interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato.

Da tale principio di diritto consegue che, ove sia dedotta una responsabilità di natura contrattuale del sanitario, il paziente è tenuto a provare, anche a mezzo di presunzioni, che esiste un collegamento causale tra la condotta del sanitario e l’insorgenza della malattia nuova o l’aggravamento di una patologia preesistente lamentata dal paziente stesso, la struttura sanitaria è tenuta a provare l’adempimento o che l’inadempimento è dovuto ad una causa “imprevedibile ed inevitabile”, che ha reso impossibile il corretto adempimento della prestazione. Nel caso in commento, la Corte d’Appello ha ritenuto che la paziente avesse correttamente fornito la prova del nesso di causalità materiale tra l’evento lesivo (danno all’occhio) e comportamento della struttura mediante un ragionamento probabilistico, basato sulle presunzioni sopra viste e dunque correttamente deducendo da fatti noti (assenza dell’infezione all’ingresso in ospedale; accesso alla zona infetta solo da parte dei dipendenti dell’ospedale) il fatto ignoto (cioè il comportamento attivo o omissivo di un dipendente dell’ospedale quale causa del contagio).

In tema di danno da infezione trasfusionale, è onere della struttura ospedaliera dimostrare che al momento della trasfusione il paziente avesse già contratto l’infezione per la quale domanda il risarcimento. (Cassazione civile sez. III, 24/09/2015, n.18895)

Così la recente sentenza della Cassazione Sez. III, n. 11599 del 15 giugno 2020 sul nesso di causalità materiale in materia di infezioni, decisione conforme al principio di diritto riaffermato in una delle sentenze del cosiddetto “decalogo di San Martino 2019”, sulla base della quale: “In tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno-evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione”. (Cass. Civ., Sez. III, n. 28991 dell’11 novembre 2019)

A fronte della prova del nesso di causalità fornita correttamente dalla paziente, la semplice produzione, da parte della struttura sanitaria, dei protocolli ospedalieri per le medicazioni in fase post-operatoria è ritenuta, quindi, insufficiente.

Con riferimento al nesso di causalità tra comportamento erroneo e insorgenza di infezioni nosocomiali, l’orientamento della Cassazione non è quella di individuare la causa precisa e/o la modalità specifica di insorgenza dell’infezione con criteri di certezza, ma quella di ricorrere alla prova presuntiva e al criterio della probabilità logica o razionale, del più probabile che non, principio sancito dalle Sezioni Unite Cassazione, n. 576/2008, e nella giurisprudenza successiva.

Nelle I.O. (oggi ICA in senso più ampio), infatti, per il riconoscimento del nesso causale è sufficiente che sia individuata l’astratta compatibilità tra infezione e trattamento sanitario ricevuto, in assenza di certezza in ordine ad altre cause alternative di spiegazione dell’origine dell’infezione o la corrispondenza, sotto il profilo cronologico, tra momento di manifestazione dell’infezione e periodo di ricovero.

Nell’ipotesi di infezione contratta in ambito ospedaliero – cd. infezione nosocomiale – graverà sul soggetto danneggiato, oltre alla prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della patologia ovvero dell’insorgenza di nuove patologie, anche la prova del nesso causale tra il pregiudizio lamentato e l’infezione, secondo un criterio di “probabilità logica”, mentre graverà sulla struttura sanitaria – una volta accertata la sussistenza di tale nesso causale – l’onere di dimostrare di avere diligentemente operato, sia sotto il profilo dell’adozione, ai fini della salvaguardia delle condizioni igieniche dei locali e della profilassi della strumentazione chirurgica eventualmente adoperata, di tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, onde scongiurare l’insorgenza di patologie infettive a carattere batterico, sia sotto il profilo del trattamento terapeutico prescritto e somministrato al paziente dal personale medico, successivamente alla contrazione dell’infezione. Il mancato raggiungimento della prova in ordine agli enunciati profili da parte della struttura sanitaria, ne comporta la responsabilità diretta nella causazione dell’infezione, per non aver messo a disposizione del paziente le attrezzature idonee ad evitare l’insorgenza della complicanza infettiva. (Tribunale Agrigento, 02/03/2016, n.370)

In mancanza di prova in ordine alla effettiva sterilità dei locali in cui fu eseguito l’intervento e della strumentazione utilizzata, così come in ordine ai protocolli adottati per la prevenzione di infezioni ospedaliere ed alle verifiche e precauzioni adottate a tal fine, sia la struttura sia i medici vanno considerati responsabili per l’infezione nosocomiale contratta dal paziente (Tribunale di Milano, sentenza n. 1007 del 5 febbraio 2020, in tema di infezioni nosocomiali, prova liberatoria in giudizio e ripartizione della responsabilità tra medici e struttura).

Le indagini tecniche svolte nel procedimento hanno confermato che la presenza di Escherichia Coli fosse “assai probabilmente” riconducibile ad inquinamento perioperatorio, in quanto “Nessuna prova è stata offerta in ordine alla effettiva sterilità dei locali in cui fu eseguito l’intervento e della strumentazione utilizzata… i convenuti non hanno fornito indicazione alcuna in ordine ai protocolli adottati per la prevenzione di infezioni ospedaliere, né i medici convenuti – entrambi operatori nell’intervento de quo e dunque tenuti ad operare con la dovuta prudenza e diligenza – hanno dato atto delle verifiche e precauzioni adottate a tal fine.”

I CTU hanno censurato la condotta dei medici non solo in merito all’omessa prevenzione ma anche con riferimento alla cattiva gestione dell’infezione, considerato che “il quadro infettivo iniziato subito dopo l’intervento e durato 5 mesi è stato gestito con lunghi e inutili tentativi di mantenere gli impianti… difficilmente l’infezione di un impianto, qualunque esso sia si può risolvere senza la rimozione dello stesso, come infatti è successo. Sarebbe stato prudente rimuovere gli impianti dopo i primi tentativi fallimentari di terapia antisettica, bonificare così le tasche ed eventualmente dopo un adeguato periodo di tempo (almeno 6 mesi), se il paziente lo richiedeva, reimpiantare due nuove protesi.

Il Tribunale ha quindi affermato la responsabilità sia dei medici che della struttura tanto per l’insorgenza, quanto per il prolungamento dell’infezione sofferta dal paziente.

Le infezioni ospedaliere non sono colpa di chi ha curato il paziente ma della struttura dove è stato curato, con questo principio il Tribunale di Roma, Sez. XIII, con sentenza pronunciata nel procedimento R.G. n.34214-2012 e pubblicata in data 27-09-2018, ha condannato un’azienda ospedaliera a risarcire un paziente per aver contratto durante un ricovero e come conseguenza di questo un’infezione che lo aveva costretto a sottoporsi a ulteriori interventi chirurgici.

Il Nosocomio è quindi responsabile se non può dimostrare di aver fatto tutto il necessario per evitarle e l’azienda va condannata a risarcire il paziente, Linee guida e protocolli sono inutili se non si vigila “quotidianamente, nei modi possibili e fattibili, sull’applicazione di esse sul campo, cosa che avviene di rado”. Nel caso in esame il paziente non si lamentava dell’intervento, ma dell’infezione ospedaliera per la quale chiedeva un risarcimento e l’ospedale si costituiva contestando la domanda ed evidenziano che al paziente erano state somministrate le migliori terapie per debellare l’infezione insorta, mentre non c’era nessuna correlazione con l’infezione insorta e diagnosticata dell’operazione. Una prima perizia rilevava il nesso causale tra l’intervento e l’infezione della ferita da considerarsi a tutti gli effetti ospedaliera, tuttavia, reputava che l’infezione non fosse attribuibile a malpractice medica quanto a carenza strutturali e organizzative dell’ospedale. Il giudice disponeva una nuova consulenza secondo la quale: – non c’erano dubbi che il batterio fosse di origine ospedaliera; – il contagio presupponeva una qualche carenza, una deficienza di attenzione e di messa in opera in ordine alle procedure di sanificazione e di asetticità che devono costantemente garantire la sicurezza del paziente contro i contagi da infezioni nella struttura ospedaliera. Secondo il Giudice è pressoché impossibile, anche accertando la natura e provenienza ospedaliera del batterio che ha contagiato il paziente ricoverato, e anche nella certezza che questo non fosse affetto prima del ricovero dalla relativa patologia infettiva, individuare il luogo e il momento, il settore di attività, la causa scatenante, il punto debole della catena di protezione delle misure di sanificazione. Una volta accertato quindi che il paziente abbia contratto l’infezione, si legge nella sentenza, “in virtù dei principi che regolano l’onere della prova, in materia contrattuale non vi può essere alcun dubbio che incombe alla struttura ospedaliera provare di avere adottato tutte le misure utili e necessarie per una corretta sanificazione ambientale, al fine di evitare la contaminazione. In altre parole l’Ao doveva fornire la prova che l’evento dannoso (contagio) non rientra tra le complicanze prevedibili ed evitabili. Qual è il modo di adempiere a tale prova negativa? Quello di fornire la prova positiva di aver fatto tutto quanto la scienza del settore ha finora escogitato per evitare o quanto meno ridurre al massimo il rischio di contaminazione e di diffusione del contagio”. Dall’ulteriore perizia chiesta dal Giudice può affermarsi, con assoluta certezza, che è mancata la doverosa ed esigibile attenzione, da parte del nosocomio, alla predisposizione ed attuazione di adeguate misure di sanificazione…è completamente inutile elaborare protocolli e linee-guida da parte dei Comitati per le infezioni ospedaliere, se non si vigila quotidianamente, nei modi possibili e fattibili, sull’applicazione di esse sul campo, cosa che avviene di rado.

La sentenza rileva il danno biologico sia temporaneo che permanente evidenziando che le infezioni ospedaliere, oltre ad essere una contraddizione, rappresentano un problema reale della sanità pubblica, che comporta un peso economico per i cittadini e un fallimento dell’assistenza.

  1. Conclusioni

Alla luce delle considerazioni svolte, che dimostrano l’aumento dei casi di infezioni correlate all’assistenza ospedaliera, è necessario sensibilizzare i cittadini e gli operatori sanitari sul tema della prevenzione e dell’antibiotico-resistenza, mediante corrette pratiche di prevenzione e protocolli adeguati, in grado di ridurre l’impatto economico sul Sistema Sanitario Nazionale, considerato che i costi di trattamento di una singola infezione vanno dai 5 mila ai 9 mila euro, nella piena consapevolezza dell’importanza nella scelta degli strumenti giuridici di tutela per i pazienti, in materia di risarcimento danni da responsabilità medica per le I.O., oggi definibili ICA in senso più ampio e completo rispetto all’evoluzione del sistema sanitario complessivo.

 

SCARICA PDF